“Ninno”, in ricordo di Pasquale Martiniello

La doppia fiamma[1]

Questo racconto, scritto nel maggio del 2010, ha ottenuto il Premio Speciale Unico della Giuria alla XXXI Ed. del Premio Nazionale “Il portone” di Pisa. Viene pubblicato nell’edizione di settembre della Fenice in onore del poeta Pasquale Martiniello e del suo amato concorso letterario “Aeclanum” che quest’anno giunge alla XXXI edizione.

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Ero poco più che un bambino quando incontrai il mio primo foglio bianco, lo guardai a lungo, tenendolo tra le mani con la stessa premura che si potrebbe riservare ad un ricordo, nel suo candore mi sembrava che qualunque segno con la penna lo avrebbe inevitabilmente offeso; ero nella mia cameretta, la radio balbettava canzoni melodiche e alla finestra il sole si addormentava, socchiudendo il suo sguardo di fuoco su un’estate torrida.

Quel pomeriggio dell’estate del ’92 mi sarebbe rimasto nel cuore per sempre, fu il pomeriggio in cui vinsi la paura di quel foglio bianco e le parole iniziarono a colorarsi di inchiostro, e così i paesaggi, le emozioni, i sentimenti, i misteri, fu il pomeriggio in cui capii che esiste un mondo lontano, un mondo diverso dove le cose non sono altro che cose e le lancette degli orologi si impigliano all’eternità delle emozioni che ci vivono dentro, in un luogo tanto nascosto che la maggior parte delle persone ha paura di raggiungere e cessa di cercarlo trattenendosi al limite di una vita consumata nel vano desiderio di viverla.

Non ho memoria di quello che scrissi allora, ma ricordo esattamente la sensazione che provai quando posai la penna accanto al foglio ed osservai il cielo fuori dalla finestra, mi sembrò che non ci fosse più il vetro e che tutto quel cielo, sino a quel giorno così lontano, facesse parte di me; ricordo perfettamente quella sensazione perché la provo ancora oggi, mentre gli anni si sono accavallati come onde sugli scogli sino a perderne il conto, quando riprendo in mano la penna e con essa la chiave della porta che valica quel confine e mi avvicina al cielo.

Mio zio Pasquale allora era già un poeta affermato, i premi si accavallavano sugli scaffali del suo studio, una piccola stanza dominata da una grande libreria color mogano e  una piccola scrivania dello stesso legno affacciata al balcone che dava sulla chiesa di San Francesco; per me e per i miei giovani anni era una persona inaccessibile, ogni volta che gli parlavo mi sembrava quasi che lui fosse seduto su una pila di libri ed io giù a cercare di raggiungerlo senza poterlo neppure sfiorare.

Io lo ricordo così, con il suo impeccabile completo blu, radi capelli d’argento, i suoi occhiali da lettura leggermente discostati dagli occhi, ed uno sguardo graffiante, lo sguardo di chi ha ascoltato del mondo troppe cose sbagliate e preferisce rimanere in silenzio.

Quel pomeriggio di fine estate era seduto alla sua scrivania quando carico d’emozione gli portai i miei primi componimenti che, nella sfrontatezza della gioventù, credevo degni di ogni lode; lui ne prese uno a caso e cominciò a leggerlo tra sé, quegli istanti furono interminabili, quello studio mi sembrava un tribunale e lui il giudice, il vecchio orologio a muro sembrava essersi fermato, un silenzio pesante avvolgeva ogni cosa; ad un tratto mi ridiede il foglio e mi guardò dritto negli occhi “Pensa a studiare – disse –  questa è l’unica cosa importante !”

Io rimasi davanti a lui in silenzio, una sorta di panico mi aveva congelato le gambe, poi pian piano mi ripresi, staccai gli occhi dai suoi e lo salutai, lui rispose cordiale come sempre.

Tornai a casa con quei fogli in mano, che mi sembravano carta straccia, i miei “grandi” componimenti non avevano destato in lui nessuna reazione, anzi quasi il timore che delle stupide velleità mi avrebbero potuto allontanare dagli impegni seri della vita.

La notte non chiusi occhio, quei fogli erano ridiventati bianchi, anzi nemmeno bianchi, erano sporchi di parole che non valevano assolutamente nulla, chissà che cosa aveva pensato mio zio dall’alto della sua cultura e dei suoi riconoscimenti di quelle stupide frasi da ragazzino…

La delusione pian piano passò insieme a quell’estate infuocata e le prime foglie gialle si affollarono alle porte riaperte del Liceo, i giorni ricominciarono ad essere istanti, e quei fogli rimasero nascosti nei miei quaderni quasi fossero amici ai quali affidare un segreto indicibile.

Una mattina come tante all’uscita di scuola mio zio mi fermò davanti alla Presidenza – “Puoi entrare un attimo ?” mi disse, con uno sguardo che non esprimeva nulla , “Certo preside”, risposi…a pensarci oggi mi vien quasi da ridere quando mi rendo conto che a scuola ci siamo sempre persi dietro i titoli e le apparenze.

Lui si avvicinò alla scrivania, si sedette e prese un piccolo opuscolo tra le mani : “Questo è un concorso di poesia importante, ci partecipo anch’io, se vuoi c’è una sezione dedicata ai giovani…” e me lo diede, “ Ccccerto potrei tentare !” risposi con le mani che mi tremavano, mentre la mia mente si affollava di pensieri e di paure, “E non restarci male se non accade nulla !” aggiunse sorridendomi come non aveva mai fatto.

Non ricordo neppure se lo salutai o lo ringraziai, so soltanto che quando uscii dalla scuola mi sentivo leggero, sentivo elettricità che mi scorreva nelle vene e ripensai, correndo a casa, a quel pomeriggio d’estate quando mi era sembrato di averlo deluso enormemente, ed avevo accantonato quei fogli nel cassetto segreto dell’anima.

Mancavano due settimane al termine ultimo per la spedizione delle sillogi, ed io le passai a leggere e rileggere ogni singola parola delle mie poesie, alternando momenti di gioia a momenti di panico, fino a pensare di non mandarle affatto per non dover poi subire lo smacco della sconfitta.

Alla fine, l’ultimo giorno utile mi recai all’ufficio postale con il mio plico ricolmo di speranze e incertezze e lo spedii; di quella mattina mi resta la freschezza dell’aria settembrina, il profumo delle strade umide di pioggia, i veli del sole intrecciati agli aghi dei pini, la leggerezza delle ali che ognuno di noi possiede a quell’età ma che purtroppo ci accorgiamo di avere soltanto quando le abbiamo irrimediabilmente richiuse.

I giorni seguenti passarono in fretta, e all’ora di pranzo tornando da scuola gettavo un occhio fugace alla cassetta della posta sperando in una lettera che non arrivava mai.

I giorni diventarono settimane e le mie speranze sogni, alla fine di ottobre passavo davanti alla cassetta della posta senza neppure sbirciarci più dentro, con la rassegnazione di chi ha provato a salire una scala e vede i gradini che continuano a moltiplicarsi all’infinito; fino a quel lunedì.

Ritornando a casa attraverso il plexiglass della cassetta vidi una lettera depositata sul fondo, mi accostai con il cuore in gola e riuscii a leggere il mio nome scritto con un’elegante grafia; mi catapultai sulle scale per prendere le chiavi e ridiscesi in un attimo, mentre mia madre sulla porta aspettava con ansia il verdetto…Non riuscivo a mettere la chiave nella piccola serratura, mi fermai un attimo e finalmente l’aprii, rimanendo immobile nell’androne delle scale con quella piccola lettera in mano senza decidermi ad aprirla.

Alla fine trovai il coraggio mentre mia madre mi chiamava dalle scale per saperne qualcosa, quando lessi la lettera, credo fermamente di aver compreso per la prima volta cosa fosse la felicità, l’attimo indistinto che ci separa dal mondo e  rende ogni cosa migliore di ciò che sia veramente, la felicità di vedere gli occhi dei miei genitori brillare d’emozione e di fierezza, la felicità di ripensare ad un sogno e vederlo tramutarsi in realtà.

– Ero arrivato secondo e mi offrivano anche di pubblicare il mio libro !- per me ,che avevo sognato di veder pubblicata sul giornalino della scuola una mia poesia, fu come vincere il premio Nobel.

Quando lo comunicai a mio zio, lui lo sapeva già perché a quel concorso era arrivato primo e stava già preparando le bozze per la pubblicazione dei suoi “Canti della memoria”, ma non mi aveva detto nulla ed aveva aspettato che andassi da lui forse per leggermi negli occhi l’emozione che ci distingue dalle cose e rende speciale questo incredibile viaggio, chiamato vita,  che alla fin fine non conduce da nessuna parte.

«Hai visto che avevo ragione Ninno, se vuoi alla premiazione ci andiamo insieme !» , mi disse stringendomi la mano.

Quello fu il mio vero premio, sentirlo fiero di me, sentire la nostra distanza impalpabile cancellata da quel nomignolo con il quale da quel giorno in avanti mi avrebbe sempre chiamato, leggere sul suo viso l’accennato sorriso di chi ha vissuto un inaspettato giorno di sole e lo conserverà per sempre nel suo cuore.

Il viaggio a Pontedera fu splendido, e in quei due giorni oltre al professore, al letterato, all’anziano che vede il mondo con occhi disincantati, io ritrovai mio zio, con la sua dolcezza, le frasi accennate dietro la sua voce rauca, la sua satira pungente verso un mondo che vedeva sul ciglio di un infinito burrone, il conflitto che viveva tra la sua premura nel cercare di insegnarmi a tenere i piedi per terra e lo slancio nel cercare di non farmi chiudere quelle ali che inevitabilmente mi avrebbero fatto soffrire.

Quella domenica di novembre, quando si alzò nella sala gremita di persone, mentre pronunciavano il mio nome, per permettermi di passare ed andare a ritirare il mio primo riconoscimento, avevo soltanto diciassette anni e la vita sembrava ancora un giardino incantato richiuso in una sfera di vetro, come le ampolle dei souvenir, dove a comando si può manifestare la magia della neve.

Portai quella piccola coppa a casa e la riposi orgoglioso nella libreria accanto al mio primo libro pubblicato, continuavo a rileggere il mio nome sulla copertina e non mi sembrava vero, non riuscivo a crederci, lo fissavo per ore e vagavo con la fantasia nei luoghi al di là dell’orizzonte.

Gli anni sono passati in fretta, a rivederli oggi che la giovinezza è svanita dietro un’ombra d’estate, sembrano fogli di carta velina alzati dal fuoco ed inceneriti in un solo istante, ed i ricordi e le emozioni quasi si tramutano in sogni, lasciando un dubbio velato sulla loro reale esistenza.

Dopo quella domenica di novembre le lettere si moltiplicarono, la mia piccola coppa argentata trovò compagnia, altri libri ed antologie conobbero il mio nome ed i miei pensieri eppure il ricordo di quel pomeriggio di novembre è sempre il più intenso ed il più dolce  quando ancora oggi lo rispolvero riaprendo quella piccola lettera, che ho conservato gelosamente nello scrigno delle sensazioni perdute mentre le stagioni si alternavano e le ali dei miei sogni di giovinezza iniziavano ad appesantirsi.

Ricordo con infantile malinconia il giorno in cui andai a casa di mio zio per fargli leggere le mie poesie e il senso di timore reverenziale che provai per quello studio ricolmo di libri e premi, e ricordo con altrettanto affetto le infinite ore che ci passai negli anni che seguirono, quando non esisteva più nessuna distanza tra di noi, rivivo le ore dolci delle poesie recitate, le ore passate a visionare i tanti componimenti che giungevano per il premio diretto da mio zio, le ore dei consigli e degli ammonimenti, le ore della sua collera per la giustizia che moriva nelle pieghe dell’indifferenza, le ore in cui disegnavo le copertine per i suoi libri, le nostre ore al di là del tempo e del mondo che fuori da quella finestra correvano in fretta.

L’ultima volta che ho varcato la porta del suo studio, la scrivania era accantonata in un angolo, coperta dalla polvere che appartiene al silenzio e al suo posto c’era un letto, un angolo di riposo per la sua impossibilità di salire la scale ed andare in camera sua.

“Ninno sei venuto a trovarmi ?!” mi disse con la voce soffiata di chi ha combattuto troppe battaglie e non ha più la forza né la voglia di combatterne altre.

Io lo salutai affettuosamente cercando di non tradire l’angoscia per il suo viso emaciato e gli occhi spenti mentre le parole mi si strozzavano in gola e nella mia mente il vuoto prendeva il posto di ogni cosa.

Parlammo tanto, sempre cercando di sfuggire dalla verità che prepotente si presentava ai miei occhi quando girando lo sguardo osservavo la miriade di medicinali sparsi ovunque ed il foglio stampato da Imma con gli orari esatti della somministrazione; parlammo del mio viaggio di nozze, dell’eleganza con la quale si era presentato in chiesa il giorno del mio matrimonio, parlammo del romanzo che stavo scrivendo e delle poesie che dovevano essere esaminate per il concorso, parlammo del futuro e della bambina che mia moglie aspettava : “Sai zio voglio chiamarla Dina, come mia nonna !” gli confessai cercando di mantenere il tono di voce più distaccato possibile, “Sei sempre stato troppo sentimentale, è un’idea dolcissima !” mi confermò lui, tradendo nello sguardo un bagliore di quella luce che lo aveva sempre contraddistinto, – “Quando nasce la piccola ? ”, mi chiese con la sua voce affaticata, “A fine giugno, zio”, gli risposi; lui mi guardò, per un attimo, come faceva sempre quando era sul punto di esprimere una qualche verità e disse “Fine giugno è tardi, Ninno, è troppo tardi !” e sorrise velatamente; io cercai di scherzarci su, prendendolo in giro per la sua solita vena pessimista ma in cuor mio quelle parole furono come lame, perché anch’ io mi rendevo conto che quella data sembrava lontanissima.

Le due ore che passammo insieme prima che io dovessi andare a lavoro furono un attimo ed un secolo allo stesso tempo, mi affidò ricordi della sua giovinezza, ricordi di studi e di terra, di sacrifici e di valori che al giorno d’oggi sembrerebbero fiabe, mi rammentò quanto fosse stata dura la sua giovinezza quando doveva percorrere dieci chilometri a piedi, ogni mattina e in qualsiasi condizione climatica, per raggiungere il liceo, e allo stesso tempo quanto fosse dolce ricordare il suo  mondo scomparso, amaro e delicato come riescono ad essere soltanto le vicende mitigate dai ricordi e dalla malinconia.

I minuti ormai erano giunti al termine, lui prese lento l’ultimo libro che aveva pubblicato, dove celato dalla poesia c’era tutto il viaggio di dolore e sofferenza che aveva dovuto patire in quegli ultimi mesi, impugnò la penna e sforzandosi di non tremare me lo dedicò; le parole e l’orgoglio che mi manifestò in quelle poche righe resteranno sempre il nostro piccolo segreto e con esso l’emozione che continuo a provare quando prima di addormentarmi le rileggo al chiarore tenue della mia lampada da lettura e , riponendo il suo libro nel comodino, gli do la buonanotte.

Mio zio Pasquale non è mai stato una persona dai complimenti facili, ed è forse per questo che ogni suo suggerimento o lode acquistassero un valore del tutto eccezionale per me; in quel pomeriggio di febbraio, i cui lineamenti già si sgretolano nell’onda perenne e mitigatrice della memoria, mi confessò che gli erano piaciute  molto le parole che avevo dedicato in memoria del farmacista del paese, io ero già in piedi con il giubbino addosso, accanto alla porta, pronto ad andare, – Mi è piaciuta tanto la poesia che hai scritto a Don Guido…..- si sforzò di dirmi con la sua voce sottile, che nulla aveva della sua forza e del suo vigore, e poi aggiunse – “ehm…. Ninno, la prossima la scriverai per me !” e mi salutò alzando lentamente la mano e accennando un sorriso, io lo guardai come si fa con un tramonto che nell’incanto dei colori e delle sfumature già esemplifica la sua caducità e ricambiai semplicemente il saluto con la mano.

Forse soltanto  imboccando il piccolo corridoio che portava al portone d’ingresso mi accorsi di aver sempre saputo, in quel pomeriggio dolce e indimenticabile,  che quello non era più il suo studio bensì la sala d’attesa d’una stazione mentre lo sbuffo del treno già copriva ogni cosa ed i motori lentamente si stavano riscaldando senza che io o nessun altro potesse far nulla.

Pochi giorni dopo, in una notte di febbraio bagnata da lente e affilate schegge di pioggia, mio zio Pasquale si addormentò per sempre nel sonno che ci conduce oltre i limiti dell’orizzonte tremante e salì su quel treno che lo attendeva paziente per condurlo in un luogo e in un tempo inaccessibili ai nostri passi ma non ai nostri cuori.

Del suo funerale, del uso studio trasformato in una camera ardente, degli articoli sui giornali, delle lodi e della fama, della chiesa gremita, non mi resta altro che l’infinita paura nel leggere quella poesia che purtroppo, come lui aveva pronosticato, dovetti scrivere, la paura sottile ed arcana che lui non potesse ascoltare, la paura terribile che quel viaggio ci avesse davvero divisi per sempre.

Sono passati diciotto anni da quella splendida domenica di novembre in cui le nostre strade letterarie ed umane si incontrarono per non dividersi mai più, diciotto anni che a raccontarli tutti non basterebbe un romanzo, ma di questo infinito tempo c’è un ricordo che non mi abbandona e che mi ridona sempre intatto il viso e l’anima del mio illustre zio.

Nel settembre del 2003 un black out totale spense le luci di tutta l’Italia, l’inevitabile disagio che provocò riempì i giornali e costrinse tutti noi ad una notte completamente buia; quando ne parlai con lui pochi giorni dopo l’emozione che mi trasmise mi fece rendere conto di chi avevo di fronte.

Del disagio enorme, delle televisioni spente, dei frigoriferi che si scongelavano non c’era nessuna traccia, in lui, di quell’esperienza apparentemente insignificante, era rimasta una miracolosa porta verso un tempo scomparso, l’inaspettata meraviglia di poter vedere il cielo come faceva cinquant’anni prima, quando le stelle raccontavano favole e la sua penna riusciva a trascriverle, quando le lampadine erano vetro e metallo e si usciva di sera nei campi a rinchiudere le lucciole in un barattolo di vetro affinché la loro luce scacciasse via le tenebre della cucina; dopo tutti i suoi discorsi mi guardò dritto negli occhi e mi disse “Ti rendi conto Ninno, per illuminare la terra abbiamo oscurato il cielo !”; queste poche parole le risento sempre nelle mie notti insonni quando un foglio bianco mi ascolta silenzioso e, per quanto la vita mi abbia dato la sua lauta mano di dolore e disincanto, non riesco ancora oggi a credere che tutto il nostro incredibile viaggio possa ridursi semplicemente al susseguirsi dei giorni e degli eventi che ci conducono all’inevitabile termine di ogni esperienza.

In questa notte di maggio un foglio bianco si è colorato d’inchiostro per darmi la forza di continuare a sognare, mia moglie mi dorme accanto e insieme a lei, in un miracolo di vita e magia, mia figlia aspetta con ansia l’ultimo mese che la divide dall’aprire i suoi occhi sul mondo; in questo istante, tenero come l’abbraccio che non puoi più ricevere, non riesco a non pensare alla gioia che avrebbe provato mio zio nel prenderla in braccio e sentire nel cuore il sottile legame che ci unirà tutti per sempre.

Sono passati tre mesi da quella terribile notte di febbraio, oltre le lacrime, oltre al vuoto e al silenzio, la vita e gli impegni freddamente hanno ripreso il loro corso; le poesie del prossimo concorso giacciono sulla mia scrivania nella convinzione amara che non le esamineremo insieme; quando la punto celeste, che lui amava tanto, si è fermata davanti casa mia, ho dovuto purtroppo constatare che a guidarla non c’era mio zio ma mia cugina.

E’ strano come la maggior parte della vita trascorra per lo più in maniera indifferente, persa tra impegni e preoccupazioni che ci distolgono lo sguardo da quel cielo tempestato di stelle che mio zio amò sopra ogni cosa, eppure ci sono piccoli attimi, situazioni, parole che ci restano impressi nella mente e nel cuore, che ridonano nuova luce ad ogni singolo giorno e gettano un raggio di speranza  sul nostro futuro.

Oltre all’inevitabile mancanza, al dolore della perdita, in me, oggi, resta vivo il ricordo di una persona che mi  ha voluto bene davvero, e che, spogliata dei suoi tanti titoli e dei suoi premi altisonanti, conosceva la differenza tra il bene ed il male, e cercò sempre di insegnarmela affinché la mia vita non passasse nel vano tentativo di viverla senza comprenderla appieno, una persona semplice e diretta che amava la poesia e la sua forza nel distaccarci da ciò che non ha valore, una persona delicata che ha lasciato in me un vuoto che nessuno riuscirà a colmare.

Nella mia vita la realtà ed i sogni si son sempre confusi in una danza magnetica e profonda, ed oggi che mi accingo a diventare papà non so davvero se riuscirò un giorno a discernere ciò che è reale da ciò che non lo è; nella mia fantasia mi piace pensare e sentire che oggi, come sempre, mio zio Pasquale sia ancora accanto a me a chiamarmi con l’appellativo che soltanto lui usava, che possa avere ancora la forza di insegnarmi la vita e aggrottare la fronte quando accendo una sigaretta, che possa delicatamente entrare in uno dei miei sogni per venirmi a trovare.

Del nostro legame e dell’infinito affetto che sempre ci legherà, oggi mi resta la consapevolezza di aver davvero conosciuto chi fosse, di aver avuto accanto i suoi sogni e le sue speranze, di aver avuto l’incredibile onore di vederlo ridere delle cose semplici, ma mai banali, di cui è costellata la nostra esistenza, di aver ascoltato i suoi consigli e di portare impresse nella mia mente le sue parole ricamate in poesia; ed è per questo che son convinto che né il tempo né la morte potranno mai allontanarlo da me.

Un giorno anch’io sentirò il fischio del treno e lascerò che la mia penna cessi di colorare fogli bianchi e forse chissà se quel giorno, nella sala gremita degli uomini che non conoscono più la rovina del tempo, mio zio si alzerà per farmi passare e sedermi di nuovo accanto sulle poltrone del cuore che non possono svanire….

Tra quel giorno e l’oggi so che non lo dimenticherò mai !

 Massimo Lo Pilato

 

 


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