Storia, fede e tradizione: sabato 14 settembre, si rinnova il rito della «grande tirata» del Carro

carro

Per tutti i mirabellani il mese di settembre non rappresenta soltanto il ricordo un po’ malinconico dell’estate ormai agli sgoccioli, ma ha un sapore particolare. E’ proprio nel cuore geografico della verde Irpinia, infatti, che, sin dai primi giorni del nono mese dell’anno, sulla collina di Santa Caterina, repentina, come il pinnacolo di una cattedrale gotica realizzata nottetempo, si staglia la guglia dorata: è il puntale del Carro di Mirabella.

Il Carro, imponente obelisco di paglia, così come lo vediamo oggi è alto all’incirca venticinque metri e pesa oltre cento quintali. La forma è quella di una piramide a base quadrangolare, saldata su un massiccio carro agricolo, detto “carrettone”, per mezzo di un basamento formato da un sistema di assi di legno consolidati in ferro. Lungo i quattro spigoli corrono i “modiglioni”, con le loro sporgenze irregolari ad occupare spazi armoniosi intorno alla struttura.

La perfetta geometria delle travi, che costituiscono la struttura interna, consente la formazione dei sette piani, detti anche “registri” alla sommità dei quali è fissata la piccola statua lignea della Madonna Addolorata. La costruzione è solida ma allo stesso tempo flessibile: deve riuscire ad assorbire ed accompagnare gli strattoni delle quarantadue funi che la sostengono. A dodici buoi, suddivisi in sei coppie, il compito di trascinare il grande carro che sostiene la guglia per le vie del paese.

L’appuntamento con la tradizione è fisso: il sabato che precede la terza domenica di settembre, giorno in onore della Madonna Addolorata, ogni anno, il Carro sfida il destino con il rito della “grande tirata”.

Alle ore 14 ha inizio il difficoltoso percorso campestre che dalla collinetta, tra ulivi e case coloniche, precipita fino al Borgo. Sin dai suoi primi movimenti, il Carro è come sospinto da esplosioni incontenibili di voci, grida, canti, musiche e fuochi d’artificio.

Gli oltre due chilometri di sussultante tragitto sono accompagnati da un continuo di emozioni irripetibili e di assoluto realismo, un misto di sudore, suspense e stupore: il Carro sembra barcollare ed inclinarsi paurosamente giocando col suo esile baricentro sotto l’incombente minaccia di un improvviso cedimento della flessibile struttura. Una sua eventuale caduta è considerata foriera di sventure per il popolo eclanese. Il non semplice compito di mantenere in equilibrio l’imponente obelisco è affidato agli oltre duemila “funaioli”, cioè coloro che si aggrappano alle funi, con gli occhi fissi sulla torre di paglia svettante, pronti ad eseguire le attente disposizioni del “timoniere” Paolino Tammaro, figlio dell’impareggiabile ed indimenticato Domenico, anche detto dai suoi concittadini “Mineco Terretorio”.

La «grande tirata» e tutto il vortice di emozioni che la accompagnano si protraggono  per circa cinque ore, concludendosi con il trasporto in trionfo del timoniere e con la benedizione dei buoi davanti alla chiesa dedicata alla Madonna Addolorata.

Puntuali accorrono allo storico appuntamento migliaia di devoti, forestieri di ogni dove, provenienti sia dai limitrofi paesi irpini, che dalle vicine province, ma anche da fuori regione; c’è pure chi arriva da più lontano: sono i tanti emigrati eclanesi che, per l’occasione, si ricongiungono alla loro terra natia. Non mancano i curiosi, gli osservatori e gli studiosi di etnie e di tradizioni popolari, e nemmeno i fotoamatori.

La tirata del Carro rappresenta una liturgia popolare di suggestiva coralità che si impone come manifestazione primordiale di identità, come patrimonio comune per le genti irpine, in cui avviene l’inedito incontro tra sacro e profano: il mito si fonde con la storia. Nel simbolico quanto poderoso obelisco si ritrova un ininterrotto riferimento al mondo ancestrale di una naturale religiosità pagana.

L’origine della festa del Carro, difatti, è da collocarsi proprio ai tempi dei pagani, quando era consuetudine per i contadini dell’allora città di Aeclanum, offrire dei fasci di grano alla dea Cerere e alle altre divinità per ringraziare del raccolto e come buon auspicio per l’anno che seguiva. Il grano veniva trasportato con semplici e rudimentali carri agricoli, al di sopra dei quali si collocava la figura della Vergine o di un Santo al quale si offriva il raccolto. Il tutto avveniva in un’atmosfera di euforia collettiva e già da allora era un appuntamento festoso e ricorrenza religiosa.

Per le offerte del grano gli antichi del Sannio e dell’Irpinia, già in età precristiana, erano soliti allestire elaborati carri ed organizzare festose processioni. La tradizione, però, decadde man mano, di pari passo col declino della città, fino alla scomparsa dell’usanza, in epoca medioevale. Solo nel XVII secolo ricomparve a Mirabella una simile usanza, quando i contadini del luogo offrivano carri ricolmi di fasci di grano non più a una dea, bensì ai santi e più tardi, all’affermazione del culto, alla Madonna Addolorata.

Più abbondante era il raccolto, tanto più colmi di fasci delle preziose spighe erano i carretti che, dalle varie contrade, si muovevano verso il centro cittadino, dove si solennizzavano i festeggiamenti. Il ricavato dalla vendita del grano serviva a sostenere le spese.

L’allestimento di questi carretti, che non superavano i tre metri d’altezza, si fece interessante quando tra i contadini iniziò ad insinuarsi un certo stimolo competitivo in virtù del quale, poco a poco, iniziarono a conferire ai rudimentali obelischi numerosi accorgimenti estetici, fino a fare di essi delle vere e proprie “macchine da festa”.

Un carro in particolare spiccò per grandezza e bellezza avviandosi ad un lento ma costante processo di trasformazione: quello rivestito di spighe con un baldacchino contenente una statua in legno dell’Addolorata. Fu in virtù di ciò che dall’offerta dei singoli cittadini si passò a quella collettiva, organizzata dalle famiglie Crecco e Cappuccio.

Fu così che a fine Seicento, dalla collaborazione di artigiani e contadini, nacque ufficialmente il “Carro” di Mirabella Eclano. Da questo momento, infatti, il “dono” era trasportato su un solo carro e “il Carro” ne diveniva simbolicamente l’espressione (da qui il nome improprio rimasto all’obelisco). Dagli steli di grano intrecciati alla meglio, che erano il rivestimento ornamentale della facciata frontale dell’obelisco, si era passati alla lavorazione artistica della paglia.

Peraltro, accanto al motivo religioso cominciava a prendere piede quello puramente folkloristico: il sabato precedente la terza domenica di settembre era atteso come giorno di gran festa nel quale il popolo voleva sì ringraziare il Cielo, ma anche divertirsi e svagarsi.

Per questo motivo, intorno al 1800, la popolazione di Mirabella, anziché attendere che il Carro giungesse al Borgo del paese, dove si effettuava la vendita del grano, iniziò la consuetudine di recarsi sulla collinetta di Santa Caterina per accompagnare il trasporto con musiche e danze. Già allora, nonostante la mole modesta dell’obelisco, per il traino venivano adoperate diverse paia di buoi che i contadini, a turno, aggiogavano al timone, ciascuno fierissimo di mostrare l’abilità delle proprie bestie.

La svolta si ebbe nel 1869 con l’artigiano, originario di Fontanarosa, Stanislao Martini  che progettò e compose il primo obelisco veramente artistico alto 25 metri, rivestito di paglia, la cui facciata anteriore era costituita da raffinate composizioni ottenute dal sapiente intreccio degli steli di grano. Nel progetto del Martini sono evidenti i segni che avvicinano l’obelisco eclanese alla guglia napoletana dell’Immacolata: la successione dei registri, le volute negli spigoli e la balaustra nel terzultimo registro.

Il Carro diventò un’opera importante, tanto che i mirabellani iniziarono a sentirlo come punto di riferimento stabile e la Civica Amministrazione ne assicurò la sede e ne assunse l’onere per il mantenimento. Il coinvolgimento riguardava un po’ tutti, sia nell’allestimento che nel trasporto, attirando persone anche da fuori paese.

Avvenne nel 1881 che il Carro per la prima volta cadde, a causa dei buoi che risposero male alla manovra, e in quest’occasione Stanislao Martini rinunciò alla direzione dei lavori, che affidò al fratello Generoso e a Prisco Alfonso Capodanno. La popolazione, commossa, fornì subito il necessario per la riparazione dei danni riportati, e così il Carro si poté allestire nuovamente l’anno successivo.

In seguito anche Generoso Martini abbandonò, polemicamente, la direzione dei lavori lasciando solo il signor Capodanno, il quale seppe comunque imporsi come un eccellente rinnovatore. Questi nel 1887, dimostrandosi un abile artista della paglia intrecciata, rielaborò il disegno del Carro, introducendo innovative e moderne tecniche di lavorazione, tanto che l’obelisco eclanese si arricchì di nuovi e numerosi elementi decorativi e figurativi.

Un’altra scelta indovinata fu quella di coinvolgere Giuseppe D’Amore, il falegname al quale fu commissionato il rifacimento della struttura lignea nel 1904. Capodanno e D’Amore si completavano a vicenda, risultando così un binomio vincente per diversi anni.

Non sempre però si ebbe l’allestimento e il trasporto del Carro durante il periodo del primo conflitto mondiale. Infatti, negli anni che vanno dal 1915 al 1923 il rito della «tirata» non ebbe luogo a causa di un decreto che proibiva la celebrazione di feste in periodo di guerra.

Dopo la morte di Prisco Alfonso Capodanno, avvenuta nel 1923, gli successe nella direzione del Carro, il suo discepolo Luigi Faugno che, nel 1924, lo ricostruì totalmente con una forma artistica ed architettonica nuova che prevedeva la lavorazione in paglia su tutte e quattro le facciate, non soltanto su quella centrale, il tutto in stile barocco.

In occasione dell’esposizione del Carro nella città di Avellino, nel 1932, Faugno ottenne l’ambito premio per la sua attività da artigiano. L’evento ebbe grande risalto anche a livello nazionale. Fu proprio a seguito di ciò che, nel 1936, il principe Umberto di Savoia, rimastone particolarmente affascinato, volle assistere personalmente al trasporto del Carro. In questa circostanza regalò a Luigi Faugno dei polsini in oro e lo investì del titolo di “cavaliere”. Faugno, in cambio, realizzò per lui uno stemma della Casa Savoia interamente lavorato in paglia.

Nel 1938 a causa della forte pioggia e la rottura di una ruota,  il trasporto si sospese per essere completato il giorno seguente, dopo la riparazione avvenuta durante la notte.

Nel 1940, per motivi patriottici, fu allestito durante il mese di maggio in Corso Umberto I, al centro del paese, ma senza grano intrecciato intorno, perché ancora non era tempo di mietitura. Qualche mese dopo scoppiò la seconda guerra mondiale e non ci fu l’allestimento fino al 1944.  Nel ’45 si riprese.

Luigi Faugno realizzò sempre nuovi accorgimenti e introdusse continuamente tecniche innovative fino al 1953, anno in cui morì, affidando i lavori al figlio Giotto, predestinato all’arte fin dal battesimo.

Nel 1961 ci fu la seconda caduta del Carro, a distanza di 80 anni dalla prima, e questa volta la causa furono delle corde che erano rimaste attaccate al momento della partenza. I pompieri arrivati sul posto ritenevano opportuno smontarlo per poterlo rimettere in piedi, ma i cittadini, che non erano dello stesso parere, lavorarono l’intera notte e riuscirono a rialzarlo. La mattina seguente la banda musicale e i corrieri avvisarono i paesi vicini che il rito della «tirata» si sarebbe effettuato nel pomeriggio.

In occasione del terremoto del 1980 Giotto Faugno liberò dalle macerie i pezzi del Carro e provvide tempestivamente alla riparazione, tanto che l’anno successivo si allestì e si effettuò il trasporto, anche se in forma più silenziosa per i recenti lutti .

Dal 2006 la direzione dei lavori è passata a Giotto junior che, con la collaborazione di una équipe di abili intrecciatori, monta, rimaneggia, intrama legno e paglia, funi di canapa e pannelli di spighe proprio come suo padre  Giotto e prima ancora suo nonno Luigi , secondo la tradizione, facevano un tempo.

Il restauro e il rifacimento dei pezzi avviene rigorosamente a mano e con arnesi tradizionali, lasciando fuori qualunque tecnologia moderna. I fasci di grano sono ancora offerti dai contadini a devozione della Vergine Addolorata. Gli steli dorati del grano, selezionati per grandezza, sono tenuti a bagno per qualche tempo e poi lavorati secondo le intenzioni dell’arista-artigiano.

È, questa, una delle feste più grandi e caratteristiche della provincia irpina, animata da uno spirito che mobilita in travolgente entusiasmo la locale popolazione e quanti vi prendono parte, proprio per i significati profondi che la tradizione vi ha accumulato, per la portata rappresentativa della sua simbologia e della sua scenicità e per il suo potente coinvolgimento evocativo.

Fabiola Genua


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