Il vescovo Giuliano di Eclano, uno dei più ferventi fautori del pelagianesimo

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Nell’anno 313, dall’accordo tra l’imperatore Costantino e il suo collega Licinio, prese vita il così detto “Editto di Milano”, con il quale si concedeva piena libertà a tutti i cittadini dell’impero, e soprattutto ai cristiani, di seguire la propria religione senza costrizione o limitazione alcuna.

Tale accordo non solo segna in maniera definitiva il termine delle persecuzioni contro i cristiani, ma dà l’avvio alla progressiva e inarrestabile cristianizzazione dell’Impero Romano. E’ per questo che si parla talvolta, per indicare tale cambiamento, di “svolta costantiniana”. Fu così che anche a Mirabella, dove fino a qual momento si era professata di nascosto la fede in Cristo, esplose il culto della fede cristiana.

Con i primi insediamenti cristiani nel territorio, Eclano divenne sede vescovile nel IV secolo. Il personaggio certamente più importante legato alla diocesi di Eclano fu il vescovo Giuliano.

Giuliano nasce nell’antica città di Aeclanum tra il 380 e il 386, figlio di Memore, primo vescovo della città, e di Giuliana, discendente dalla romana gens Iulia. Avviato fin da subito agli studi classici e filosofici, già nel 403 ricopre la carica di “Clericus” (Chierico) con l’ufficio di ‘Lettore’ nella chiesa del padre. In quel periodo, giovanissimo, Giuliano sposa Titia, figlia di Emilio, vescovo di Benevento. Alcuni anni dopo, nel 408, Giuliano viene ordinato diacono, mentre sua moglie scompare prematuramente.

Maestro delle lingue greca e latina, provvisto di notevoli doti dialettiche e di una profonda cultura storica, è anche fervente studioso del pensiero dei padri greci della chiesa, delle sacre scritture, dei temi della mitologia classica. Fu proprio per la sua estesa cultura e brillante intelligenza che Agostino volle ospitarlo a Cartagine.

Nominato Vescovo di Eclano da papa Innocenzo I verso il 416, generosamente donò tutti i suoi averi agli abitanti caduti in miseria dopo l’invasione della Campania da parte del popolo Vandalo. Si prospettava in tal modo un futuro radioso per il neo vescovo Giuliano, ma così non fu.

In quel periodo, infatti, la chiesa era pervasa da una profonda crisi dovuta al diffondersi della dottrina di Pelagio, monaco britannico , molto stimato e venerato a Roma per l’austerità di vita e la parola convincente, che però negava il peccato originale e svalutava l’efficacia della grazia di Dio.

Pelagio diede vita a quell’eresia che porta il suo nome: pelagianesimo. Secondo tale dottrina il peccato originale non macchiò la natura umana e la volontà dell’essere umano è ancora in grado di scegliere il bene o il male senza uno speciale aiuto divino; la conseguenza è che il peccato di Adamo fu quello di portare un “cattivo esempio” alla sua progenie, ma le sue azioni non hanno altra conseguenza.

Nel pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un “buon esempio” in grado di bilanciare quello di Adamo e di fornire l’espiazione per i peccati degli esseri umani. L’umanità ha dunque la possibilità di obbedire ai vangeli e dunque la responsabilità piena per i peccati; i peccatori non sono vittime, ma criminali che hanno bisogno dell’espiazione di Gesù e di perdono.

Giuliano non tardò a manifestare le proprie simpatie per le dottrine divulgate da Pelagio, ragion per cui rifiutò, insieme ad altri 17 vescovi dell’Italia meridionale, di sottoscrivere la famosa “Epistola tractoria” di papa Zosimo, con la quale si condannava il pelagianesimo, dichiarandolo illegale.

Così, nel 418, Giuliano paga la sua ribellione con la deposizione dalla sede vescovile e con l’esilio, cui fu condannato, insieme agli altri vescovi “eretici”, con decreto imperiale.

Inizia così una vita di peregrinazione e di povertà, che lo porta in varie città dell’Oriente (Tessalonica, Costantinopoli, Alessandria, Gerusalemme, Antiochia). In questo periodo, ospitato da Teodoro, vescovo di Mopsuestia in Cilicia, diventa capo spirituale dei pelagiani e incomincia una lunga diatriba epistolare con Sant’Agostino, di cui fino a quel momento aveva goduto di una solida amicizia, attaccandone con forza e acute argomentazioni il pensiero sui temi del peccato originale, della grazie, del male, dei sacramenti e della natura umana.

Dopo la morte di Teodoro nel 428, Giuliano, abbandonato da molti dei suoi seguaci, si reca a Costantinopoli insieme ad altri vescovi dal patriarca Nestorio, per tentare di far ritorno ad Eclano, ma non riesce nell’intento.

Riprende così ad errare per le province orientali dell’Impero, tentando, nel 439, sotto il papa Sisto III, di rientrare di nuovo nella gerarchia ecclesiastica e di riavere la sede di Eclano. Tuttavia, pure quest’altro tentativo va a vuoto, anche perché Giuliano non rinnegò mai del tutto le dottrine pelagiane. Muore qualche anno più tardi, intorno al 455, in Sicilia, dopo aver trascorso metà della sua vita in esilio e lontano dalla sua patria, Aeclanum.

In difesa delle dottrine pelagiane scrisse due lettere a papa Zosimo e due, nell’esilio, a Rufo, vescovo di Tessalonica e a Roma.

In polemica contro Sant’Agostino, scrisse i “Libri quattuor ad Turbatium”, i “Libri octo ad Florum”, indirizzati al vescovo pelagiano Floro, esule a Costantinopoli, che l’aveva esortato a scrivere contro il “De nuptiis et concupiscientia” di Agostino, e il “De bono constantiae”, ai quali Agostino rispose con il “Contra Iulianum” in sei libri e con il cosiddetto, perché incompiuto, “Opus imperfectum”. Gli vengono attribuiti anche il “Commentarius in Psalmos” e il “Commentarius in prophetas minores tres, Osee, Joel et Amos”, che è del resto attribuito anche a Rufino d’Aquileia.

L’eredità teologica lasciata da Giuliano è senza dubbio notevole.

La figura di Giuliano d’Eclano, con le sue luci ed ombre, può essere, infatti, considerata fondamentale per ciò che riguarda la cristianità del popolo eclanese, il cui sentimento religioso ha da sempre rappresentato il principale collante della comunità attraverso i secoli.

A tal proposito, nel 2003 prima e nel 2010 poi, Mirabella Eclano è stata teatro dei due congressi internazionali di studi su “Giuliano d’Eclano e l’Hirpinia Christiana”, aventi proprio l’obiettivo di scandagliare la complessa personalità dell’uomo, del sacerdote e del vescovo della diocesi eclanese, di fine acume ed intelligenza, ma schierato dalla parte perdente. Interessanti i risultati conseguiti soprattutto per quel che concerne possibili “aperture” riguardanti, da un lato, l’analisi del testo scritturistico utilizzato da Giuliano e, dall’altro, lo studio e la rivalutazione delle sue opere esegetiche.

 Fabiola Genua


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