“Ultima fermata”, il primo lungometraggio prodotto e diretto dall’eclanese Gianbattista Assanti

assanti

Una stazione, un tempo lontano, un’ultima fermata. Gli abbracci bagnati dalla pioggia e scaldati dal sole, il fischio di un capotreno. Storie di partenze e di ritorni, storie spezzate, parallele e consumate.
C’è tutto questo in “Ultima fermata”, il primo film prodotto e diretto dall’eclanese Gianbattista Assanti, che, grazie all’aiuto della Gekon Productions e di Francesco Dainotti, può vantare nel suo cast nomi illustri quali: Claudia Cardinale, Sergio Assisi, Salvatore Misticone, Luca Lionello, Francesca Tasini e Nicola Di Pinto.
Un altro fiore all’occhiello è la musica, curata dal pianista Paolo Jannacci.
La realizzazione del film ha richiesto circa tre anni: uno per la ricerca dei finanziamenti e per la stesura della sceneggiatura e due per l’esecuzione. Tre anni per nulla facili, visto lo stop di circa sei mesi, dovuto alla mancanza di finanziamenti. Solo l’azienda “Granoro”, infatti, ha contribuito, per il 40% del budget, alla realizzazione del film.
Nonostante ciò, Gianbattista Assanti è riuscito a mandare avanti il suo progetto senza deludere le aspettative, e ha deciso di raccontare la sua esperienza a “La Fenice” on-line.
Cosa la lega alla linea ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio? Perché ha deciso di raccontarne la storia?
«L’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio è stata una linea ferroviaria che ha collegato Puglia, Campania e Basilicata. Durante le due guerre mondiali furono distrutti molti binari e le interruzioni divennero continue. In un periodo storico così drammatico, la ferrovia è servita soprattutto per desertificare le regioni, a causa del fenomeno dell’emigrazione. Molti emigranti partivano da Foggia, raggiungevano Avellino e poi prendevano il treno a Napoli. Le destinazioni erano le Americhe e, negli anni sessanta, le città del Nord. Quando, nel dicembre 2010, sopraggiunse il decreto di sospensione della tratta da parte della Regione Campania, sentii il bisogno di proporre un reportage che raccontasse 120 anni di storia di quella ferrovia. Volevo descrivere il microcosmo di tante persone, di tante storie, di tanti episodi di vita, tutti concentrati come in un frullato e posti in una sceneggiatura di novantasette pagine messe al servizio degli attori».
Potrebbe svelarci qualcosa della trama?
«La storia è quella di un capotreno della linea Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, Domenico Capossela, il ferroviere che fischiava in ritardo, così che gli emigranti potessero prolungare gli abbracci con i propri familiari. Domenico regalava il tempo. Un giorno, seduto sulla panchina della stazione ormai deserta, Domenico finisce di scrivere in un’agendina rossa il suo lascito spirituale, quasi testamentale, ad un figlio che non vede da anni e con il quale vive un profondo conflitto. Domenico muore e suo figlio, Francesco, torna a Rocchetta Sant’Antonio, dove, con un’aria da commedia all’italiana, scopre che suo padre gli aveva cucito addosso un’altra vita. Dunque comincia a girovagare tra l’Irpinia e la Puglia alla ricerca di tasselli che ricostruissero la sua indagine sentimentale. La sua ricerca a tratti è ironica, in altri genera un profondo sconvolgimento interiore. L’ultimo tassello della sua indagine lo porta a scoprire che suo padre aveva condiviso gli anni migliori della sua vita con una donna, Rosa».
Nel suo cast c’è un volto conosciutissimo della televisione e del cinema italiano: Claudia Cardinale. Qual è il suo ruolo all’interno del film?
«La Cardinale veste i panni di Rosa, la sarta di Rocchetta Sant’Antonio, che custodisce un segreto sentimentale nato proprio sulla linea ferroviaria. Ancor prima di scrivere la sceneggiatura, avevo già pensato alla signora Cardinale, visto che, in precedenza, avevo lavorato con il marito, Pasquale Squitieri. Credo che il filo della memoria si possa affidare solo ad attori che in passato sono stati dei miti della nostra cinematografia. Ho parlato alla signora Cardinale del film circa quattro anni fa, a Parigi, dove lei risiede da venti anni. Lei mi rivelò che il padre, Francesco, era stato un collaudatore della linea ferroviaria tunisina. Per questo motivo, decise che il 141esimo film della sua carriera dovesse essere dedicato alla memoria del padre. Ha rispettato ogni virgola della sceneggiatura con estrema professionalità. La macchina da presa si sofferma molto sui suoi ammiccamenti e sui suoi sorrisi, lei è sempre solare, nonostante parli spesso di una persona che non c’è più, Domenico. È stata lei ad invogliarmi a scrivere dialoghi in chiave europea e non regionalistica, per ottenere una scrittura meditata, pensata, contemplativa e con un respiro internazionale. Lei ha portato il film a Taormina e a Parigi, e ben presto anche a Cannes e in Polonia, fino a quando verrà trasmesso nelle sale italiane, il 4 giugno 2015».
Qual è l’immagine dell’Irpinia che esce da questo film?
«Direi un’immagine bella e romantica. Non mi piacciono le opere teatrali o cinematografiche in cui il Sud viene sempre visto come terra di violenza e di camorra. Pellicole come “Ultima fermata” possono aiutare la nostra terra a riscattarsi, seguendo una politica di “cine-turismo”, in cui sfruttare la simpatia che il film “Benvenuti al Sud” ha saputo divulgare. Non a caso abbiamo girato in alcune location come l’Abbazia del Goleto, presso Sant’Angelo dei Lombardi, e i vigneti di Sant’Angelo all’Esca».
Se dovesse fare una critica a se stesso, anche in chiave futura, quale sarebbe?
«Il cinema costa ed è quasi impossibile produrre un film senza finanziamenti sostanziosi. Questa volta è andata così e forse è anche giusto, visto che si parla di un’opera prima, ma ci sono stati molti tagli. Si è sforato il budget e il film è stato fermo sei mesi, in attesa che arrivassero altri finanziamenti. Non posso più permettermi il lusso di fare un secondo film nelle stesse condizioni in cui ho realizzato il primo. Ce l’ho fatta perché sono riuscito a controllare la mia ansia, il mio stato d’animo e perché avevo fatto una promessa agli attori e soprattutto alla signora Cardinale».
La prima del suo film è stata proiettata in occasione del “Taormina Film Festival”, il 16 giugno 2014, e poi riproposta a Parigi il 25 marzo di quest’anno. Ci racconti l’emozione di quelle giornate.
«A Taormina ero con la signora Cardinale e dietro di me c’erano dei giornalisti tedeschi che non hanno fatto altro che ridacchiare per tutta la durata del film. La cosa mi preoccupava un po’, per cui, terminata la proiezione, ho preso coraggio e, con il mio inglese maccheronico, ho chiesto spiegazioni. Mi confidarono che il film era bello e che riusciva anche a divertire. Tra il pubblico di Parigi, invece, c’era Mario Martone, regista di “Il giovane favoloso”, biografia di Giacomo Leopardi. Gli piacquero molto i movimenti della macchina da presa e la grammatica della pellicola. A suo dire, il mio non è un piccolo film».
Qual è il messaggio sotteso nella pellicola?
«Questo è un film della memoria. Senza conoscere il passato del nostro paese, non potremo mai vivere il presente e proiettare le nostre aspirazioni al futuro. Mi auguro che questo film possa andare a suscitare, soprattutto tra i giovani, la curiosità di prendere in mano i testi di storia, così da ripercorrere l’Irpinia dell’800, l’entusiasmo di Francesco De Sanctis, allora deputato irpino eletto governatore della provincia di Avellino, nell’inaugurare la ferrovia. Raccontare la storia dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio è come raccontare l’Irpina e, per estensione, noi stessi».

Irene De Dominicis


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